Tutto il resto è disco dance: Gli stivali russi (complete version)

domenica, maggio 21, 2006

Gli stivali russi (complete version)

THE RUSSIAN BOOTS (Full Metal Version)

"Sono stivali russi, quelli?"
Un sorrisetto, una smorfia, la ricerca di condividere con me, a lei di fronte, quell’ironia che appariva pressoché inevitabile.
La ragazza castana non ritenne necessario rispondere a quell’insolita domanda, e si limitò a scuotere il capo, sorridendo di sarcastico stupore.
Quel buffo vecchino, dal canto suo, non afferrò il buon divertimento della ragazza, e continuò a fissare quel paio di stivali.
Beige, di pelle chiara, gli stivali della ragazza castana erano alti e terminavano con del pelo bianco e grigio, quasi a toccarle le ginocchia. Erano stivali italiani, molto di moda fra i giovani. Stivali normali agli occhi di tutti. Agli occhi della ragazza castana. Ai miei occhi, che li guardavano dal seggiolino opposto dello stesso tram. Agli occhi della signora mascolina che sedeva alla mia destra. Agli occhi dell’autista che li fissava dallo specchietto. Agli occhi dei miei occhi. Gli occhi celesti. Ma non agli occhi di quel signore antico.
Il suo nome era Giacinto. Il mio Franco. Quell’uomo doveva proprio appartenere ad un’altra era geologica, pensai. E forse fu lo stesso pensiero che attraversò la sua di mente, se solo quegl’occhi color cenere avessero potuto darmene conferma. Ma forse non cercavo alcuna dimostrazione, alcuna prova. Volevo solo continuare ad osservarlo, in tutto il suo più genuino stupore. Restai sul tram numero 9 almeno quaranta minuti, non curandomi di nulla, se non di quel canuto signore.
Scoprii solo più tardi, inventandomelo, che Giacinto era rimasto ibernato in un laboratorio iperbarico per gli ultimi quarant’anni. Un esperimento scientifico, credo.
Giacinto era nato tra le cime innevate dell’Alto Adige, da una famiglia di lavoratori disonesti.
A inizio secolo, giovanissimo, si era rifugiato nei boschi di casa sua con alcuni amici per evitare di fare la guerra, la Grande Guerra. Era così dannatamente contrario alle armi che nonostante pian piano uno per volta i suoi amici decisero di tornare a casa e consegnarsi alla battaglia, lui continuò a nascondersi e rimase solo per ben diciotto mesi, sopravvivendo del suo selvatico istinto. Tornata la pace Giacinto ritornò alla civiltà, non senza problemi di adattamento alla nuova era. La gente era cambiata, diceva lui, che, rimasto nella sua tana d’ovatta lontano dai rumori della guerra, non aveva conosciuto e compreso una tappa cruciale nel percorso evolutivo dell’umanità. La medesima storia si ripeté al presentarsi del secondo conflitto mondiale, altra montagna, altro rifugio. Una realtà ancor più mutata fu la scoperta di Giacinto al suo ritorno. Una realtà che quell’uomo non poteva più tollerare, come il raschiare di una forchetta di metallo in un piatto di porcellana bianca.
Uno ed unico divenne il desiderio di Giacinto: svegliarsi in un’era che non conosca guerra. Da sogno si tramutò in realtà quando nel 1966 conobbe il Dottor Schulz, dell’Università di Monaco, che lo ibernò.
Quando io lo incontrai era il suo primo giorno di vita dopo lo scongelamento, ed io ebbi la fortuna di godere del suo primo impatto col presente. Che per lui era futuro.
“ Sono stivali russi, quelli?”. Uno spassosissimo impatto. Ben tornato tra noi Giacinto, ti presento il 2006!
Scesi dal tram, camminai per cinque minuti, arrivai a casa. Prima di entrare avevo già deciso che non potevo non trascrivere quello che mi era appena accaduto.
Chissà quando si renderà conto, Giacinto, che nel mondo ancora si combatte?



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