Tutto il resto è disco dance: ottobre 2005

martedì, ottobre 18, 2005

Il vecchio e il Male.

Questa è una storiella che mi è venuta di getto, sporcandomi tutto

IL VECCHIO E IL MALE
Arrivai all’Isola Danzante il giorno prima che compissi il mio trentesimo compleanno, quasi dieci anni dopo essere partito dal porto di casa mia.
Nove lunghissimi anni, passati a remare controvento dietro a uno stupido pesce Persico, con un solo obiettivo. Lo stesso che aveva il temibile Pescecane che m’ inseguì per tutto il tempo, senza però mai arrivare né troppo vicino da intimorirmi, né troppo lontano da rilassarmi. Anni di tensione senza riposo, anni di follia, che mi fecero invecchiare ad una velocità incredibile.
Capelli bianchi e barba canuta avevano completamente mascherato quel baldo giovane che una volta ero, e a 30 anni stavo già discendendo la via del tramonto.

Ma lì ero giunto. E finalmente potevo tirare un sospiro di sollievo.

Attraccai senza indugio presso un pontile antico e bello, e per la prima volta dopo tanto tempo camminai su una landa di terra ferma.
Un odore inconfondibile rapì le mie narici e chiese un riscatto improponibile. Io non pagai e, senza esitare, proseguii ad ore dodici. Ma il tramonto era passato da un pezzo, e dopo un mese di cammino mi ritrovai in una selva oscura, attorniato da un famelico branco di lupi.
Il capo branco sembrava un tipo ragionevole, così mi tranquillizzai. Questa insolita tranquillità durò ben poco, purtroppo, fintanto che mi resi conto che in realtà a comandare era un lupo ben più giovine, tale Loredano. Un lupo giovine e scaltro, affamato, testardo, che decise di attaccarmi senza pietà.
Subito gli rifilai un calcio in bocca. Poi un pugno, e ancora una testata in mezzo agli occhi. Loredano era sistemato, e gli altri lupi se la diedero a gambe.
Irato, decisi di mangiarmi Loredano. Fortunatamente avevo del pane con me, ma non del formaggino.
Come potevo mangiarmi pane e lupo, senza neanche del formaggio?!?


Proseguii ancora nel mio cammino.

Incontrai prima degli elfi, poi dei cammelli alati, poi ancora degli elfi, e ancora dei cammelli alati. Avevo sbagliato strada, compiendo lo stesso percorso due volte.

Il 30 agosto però, finalmente arrivai.
Nella Grotta Rosa dell’isola Danzante si nascondeva vivace il tenero Pesce Persico, che per tutto quel tempo avevo senza sosta inseguito. Anch’egli era parecchio invecchiato rispetto all’ultima volta che ci eravamo trovati faccia a faccia. Ma lui insistette che io ero invecchiato di più rispetto a lui. Lo convinsi che così non era. Poi mi convinse lui.

- Finalmente sono qui, perfido cetaceo ! urlai.

Lui fece finta di non capire, ma ingenuamente rispose: - Perché mi chiami “perfido”? Non è forse lo stesso nome che usò Isacco per chiamare Sue Ellen?

Pur non capendo di cosa stesse parlando, mangiai la foglia.

E lui: - Perché ti mangi quella foglia, hai fame?

In effetti ero affamato da anni, ma ignorai la sua provocazione fingendo di avere un alta tolleranza alla rinuncia. Lo guardai diritto negli occhi e finalmente feci quello per cui avevo così tanto lottato durante tutti quegli anni.

Tosto mi girai, calai le braghe, e gli mostrai il deretano in tutta la sua magnificenza.
Lui morì. Io non ci misi molto a seguirlo.

martedì, ottobre 11, 2005

The fabulous adventures of Peggy Dog, globetrotter

Bene, in teoria dovrei parlare di musica. Il problema è che sono senza pc, non scopro nuovi gruppi, e sapete che è bello parlare delle nuove scoperte, non di come a 16 anni sono passato dai Nirvana a Battiato in 3 passaggi. Quindi, cogliendo l'occasione di un meeting serale con frizkner, scriveremo un pezzo a quattro zampe. E sarà la storia di uomo-animale mitologico... il nostro amico Cane Peggy, e la sua metamorfosi

Tanto tempo fa, nasceva tra le nebbie brianzole un riccio cucciolo di omocanide, ultimo di una cucciolata di giocattolai: egli infatti era figlio diretto di uno dei principali fornitori di Babbo Natale, secondo nell'immaginazione dei bambini soltanto all'ippopotamo della Lines.
Viveva in un posto talmente ampio, talmente verde, talmente paesedeibalocchi che la sua non può che essere stata un'adolescenza triste. Di conseguenza, la ometteremo.
Il nostro incontro con il Cane Peggy avvenne in anni differenti, ma l'approccio fu molto simile: egli infatti ci corse incontro ubriaco mugolando a festa, farfugliando delle parole gioiose ma che, all'interno di una frase, non avevano alcun senso. Ci colpii subito, per diversi motivi: egli era un cane affettuoso, fedele, sempre pronto a soccorrerti quando però non ne avevi bisogno e, soprattutto, se rispondeva al telefono. Era solito accompagnarti a lezione, e aspettarti fedele al baracchino; aveva parole gentili per tutti e non litigava mai con nessuno. L'unico che riuscì a farlo andare su tutte le furie fu un certo CyberPisani, di cui forse un giorno (sperate che sia lontano) vi narreremo la storia. Ad ogni modo, per farvi capire il tipo, se avete bisogno di spostare un pianoforte da un appartamento al quinto piano, se vi risponde al telefono lui è l'unico che non inventerà scuse improbabili e verrà a darvi una mano. Inoltre, fino a qualche mese fa il nostro eroe sembrava avesse sepolto per sempre i suoi primordiali istinti, ed era quindi sempre pronto a tuffarsi in passatempi squisitamente maschili, come la birra, il calcio, il buttadentro e la birra. Sempre se vi rispondeva al telefono. E poi viaggiava, viaggiava, viaggiava: non c'era continente che non avesse toccato negli ultimi anni, nelle sue fughe dalla triste Brianza. Ma alla fine tornava sempre a casa, ad abbaiare alla luna come ad ogni buon Cane che si convenga.
Un bel giorno, conobbe una cagnetta: fui personale testimone dell'esplosione dei suoi ormoni, avendo io stesso presentatogli il suo futuro amore. Ebbene, iniziò a latitare sempre più, immerso com'era negli ancestrali riti di accoppiamento: non guardava più nemmeno i secondi tempi di una partita di Cempion Ligs, lui che per l'Inter un tempo avrebbe dato la vita. Ma noi continuavamo a volergli bene, nonostante rispondesse al telefono ancora meno di prima, e fummo ben contenti di vederlo così felice. Così, gli impartimmo la nostra benedizione.
Il nostro buon Cane era solito dire che non voleva essere un giocattolaio come il suo Cane Padre e prima ancora il Cane Nonno; diceva anche che il giorno in cui tutti noi, suoi padroni, avremmo abbandonato la vita universitaria, lui non avrebbe più potuto aspettarci al baracchino, e sarebbe partito per l'America. Noi si rispondeva "Si, Cane", gli davamo delle pacche amichevoli sui ricci e, accarezzandogli la pancia, ci facevamo delle grasse risate non dandogli assolutamente retta.
Ma quel giorno, alfine, arrivò. Ci chiamò, ci riunì, e noi capimmo che c'era qualcosa di strano. Infatti, arrivò vestito con un gessato grigio, con un cappello a larghe falde, e ci disse: "il Cane è morto, adesso c'è solo Lorenzo l'Americano". Aveva un mitra sottobraccio, e ci costrinse così a credergli. Faceva lo spaccone, voleva uccidere tutti per dimostrare di essere diventato un perfetto gangster di Chicago. Prima di andare, però, ci diede un colpetto con le zampe pelose, come faceva ai bei vecchi tempi. E lo salutammo, perchè ogni volta che lui partiva noi non sapevamo mai quando sarebbe tornato.A maggior ragione stavolta.
Au revoir, Cane Peggy

lunedì, ottobre 10, 2005

L'educazione musicale di Gustave Flaubert

“The World is a Vampire”. Così è nata per me la musica; così ho visto per la prima volta la musica, e ne ho odorato la bellezza, toccandola nella sua essenza. Fino ad allora avevo solo udito qualcosa che gli altri chiamavano musica, ma non avevo in realtà ascoltato nulla di vero. Solo menzogne. Illusioni. Antipasti di cene mai consumate.
Passiva accettazione delle sonorità gettatemi addosso da radio e televisione, senza alcun interesse-barra-capacità di capire-barra-selezionare un proprio gusto personale.
Musica concepita come semplice contorno di uno scenario, totalmente asettico e immobile. Musica come insalata.
Finché un bel giorno è arrivato Lui.
Billy Corgan ha bussato al mio stereo e vi si è accomodato gentile, seguito da altri tre ragazzi, tali Jimmy, James e D’Arcy. Insieme si facevano chiamare Smashing Pumpkins, zucche meravigliose, non so per lo quale motivo.
Al mio Ristorante si sono trattenuti per due anni pieni, contribuendo in maniera incredibile alla fortuna di quel luogo. Hanno reso quel posto un harem musicale abbastanza carino e tranquillo, punto d’incontro per artisti e personaggi di ogni provenienza, trasformandolo considerevolmente dalla bettola deserta che era.
Si sono presto susseguiti cantanti, pianisti, chitarristi, batteristi e musicisti in generale, vivi e morti, leggende e resuscitati, alimentando una passione, quella per la musica vera, che da sola riesce a colorare un’anima.
Bob Dylan, Jeff Buckley, Roger Waters, Robert Smith, Morrisey, Neil Young, Arlo Guthrie, Nick Drake, Badly Drawn Boy, Elliot Smith, Belle and Sebastian, Cat Stevens, Counting Crows, David Bowie, Ben Harper, Radiohead, Dire Straits, Donovan, Flaming Lips, Dinosaur Jr, James Taylor, Motorpsycho, poi le donne, Joni Mitchell, Janis Joplin, Carly Simon e Joan Beaz, e poi ancora Leonard Cohen, Lou Reed, Louise Attaque, Mercury Rev, New Order, Pink Floyd, Shawn Mullins, Simon & Garfunkel, Tim Buckley, Tom Waits, Nick Cave, Wallflowers, Marcy Playground e poi anche italiani, come Franco Battiato, De Gregori o Ludovico Einaudi, francesi, come Yann Tiersen, o inglesi come la Penguin Cafè Orchestra, o brasiliani, come Renato Russo.
Sono tutti venuti a mangiare nel mio Ristorante, lasciandomi ognuno un ricordo più o meno indelebile, a patto che l’indelebilità abbia una gradazione di intensità, ma soprattutto che esista.
Il Ristorante non chiude. Il Ristorante è sempre aperto, e continua ad ospitare personaggi magnifici, come magnifiche sono le emozioni che i suoi commensali riescono a creare con i loro strumenti.
Un caffè è venuto a berlo persino Woody Allen nel mio Ristorante, col suo scintillante clarinetto.
Ora però vi devo salutare amici miei.
Sono appena arrivati due nuovi ospiti che hanno prenotato un tavolo per questa sera. Jack Johnson ha appena bussato, mentre il suo amico Donovan Frankenreiter arriverà a momenti. Au revoir!

mercoledì, ottobre 05, 2005

Il tuo milione di dollari più un altro milione. - Visto

Sono tornato a Milano, ma sono senza pc a casa... indi, mi è molto difficile poter scrivere dato che se lo faccio al lavoro e mi beccano mi fucilano.

Cmq, il blog riprenderà la propria attività appena avrò una stanza mia dove poter collegare il pc... nel frattempo posto un articolo bellissimo di Zucconi sul poker... che se aspetto che scriva frizkner sono fottuto.

a presto, i hope

Steve l’americano spizzò l’angolo delle sue carte e disse senza muovere i muscoli della faccia, come fanno i ventriloqui: I’m all in, “Punto tutto quello che ho”. Tre milioni e settecentomila dollari, ladies and gentlemen, annunciò il "meccanico", come si chiama nella lingua del poker quello che fa le carte dopo aver misurato il castello di gettoni. Hachem il libanese non guardò neppure le sue carte. Tenne i suoi occhi fissi sugli occhi dell’ultimo avversario rimasto per il titolo di campione del mondo di poker 2005 e rispose calmo: Call. “Ti vedo”. Il piatto, signori e signore, è sette milioni e quattrocentomila dollari, contò il meccanico. Spingendo un carrello di ferro di quelli usati negli alberghi per portare le uova fritte e il caffè in camera, ragazzoni con le spalle troppo larghe e ragazzone con le gambe troppo lunghe rovesciarono sul tavolo una frana di mattoni verdi, sette milioni e quattrocentomila dollari in banconote da cento, ben fascettate. Steve si grattò il mento. Hachem concesse alla moglie seduta tra il pubblico il sospetto di un sorriso. Due milioni e mezzo di telespettatori seduti a casa accavallarono le gambe per trattenere il bisogno di far pipì e la voglia di una birra e si prepararono a vedere chi di quei due, fra Steve Dennemann l’americano e Joe Hachem il libanese avrebbe portato a casa una somma che loro, gli zombies del cartellino timbrato e delle rate di mutuo, avrebbero impiegato 163 anni di lavoro per guadagnare. Al ritmo dei 46mila dollari l’anno di reddito medio nazionale lordo. La finale in diretta della "World Series of Poker", l’ultima mania televisiva che sta consumando un pubblico già annoiato dalle marionette anabolizzate del wrestling e dai falsi reality show era cominciata. Due uomini soltanto erano sopravvissuti ai 45mila sognatori che si erano massacrati per un anno in partite via Internet, in serate ai circoli di pompieri, in camerate di studenti lazzaroni, per poi ripulire i 5.800 ammessi alle finali qui nel Rio Harra’s hotel and casinò di Reno. Steve l’americano e Hachem il chiropratico libanese artritico che aveva dovuto lasciare il suo mestiere per il dolore alle mani, scoprirono le loro due carte e si alzarono. Nel poker giocato al mondiale, il "Texas Hold’em", il "Texas tienile strette", due carte coperte sono distribuite a ciascun giocatore e altre cinque scoperte sono rovesciate al centro del tavolo, buone per tutti, da combinare con quelle in mano. I due superstiti avevano puntato tutto. Non c’era ragione per tenere le carte iniziali coperte. Steve girò le sue: un Asso e un Tre. Hachem un Sette e un Tre. La signora Hachem, nella penombra, si coprì la faccia con le mani. Suo marito non aveva niente in mano, spazzatura. L’avversario aveva un asso, lo dominava. Il telecronista e il suo sottopancia sentenziarono l’ovvio: il libanese è cotto. Il meccanico, indifferente come un budda tibetano, scoprì le prime tre carte comuni: un Quattro, un Sei e una Regina. Non cambiò nulla. Girò la quarta carta, la "carta della curva" la chiamano, la penultima. Un Tre. L’americano ora aveva una coppia, due Tre più l’Asso in mano. Il libanese si strinse nelle spalle. La sua sola speranza era che dal mazzo delle 52 carte, usato per il poker americano, il meccanico pescasse per lui come ultima carta un Cinque, per fare una scala. Il meccanico, con uno svolazzo a effetto, calò sul tavolo la quinta carta, la "river card", si dice, la "carta del fiume", come quel Mississipi nel quale piombavano, per disperazione o per cortese spinta, i giocatori traditi dall’ultima carta. è finita. Le ragazze applaudirono, il telecronista inneggiò, la signora Hachem scoppiò a piangere. I telespettatori poterono finalmente andare a fare la pipì. Mai, neppure quando i ragazzi partivano verso il "Wild West" armati soltanto di una Smith & Wesson e dei tre consigli del padre, “figlio mio, non mangiare da un oste che si fa chiamare mamma, non fare all’amore con una donna più matta di te, non giocare a poker con uno sconosciuto che gli altri chiamano "doc", dottore”, questo gioco di carte aveva catturato così a fondo una nazione che pure il poker moderno ha inventato, venerato e celebrato nella propria cultura. Gli storici pignoli dei vizi umani, ci diranno che "poker" è una parola che viene dal francese "poque" e ancora prima dal tedesco "pochen", bussare, che forse addirittura furono i marinai persiani - la solita minaccia islamica -, sbarcati nella New Orleans del Settecento per vendere anche loro qualche schiavo nero ai buoni cristiani, a insegnare una versione più simile al poker giocato oggi. Ma aveva ragione Sam Clemens, più conosciuto ai lettori come Mark Twain, quando rivendicava alla sua America l’invenzione di quelle combinazioni di carte e di quelle infinite variazioni di gioco, dalle classiche cinque carte coperte, allo "stud", la teresina a cinque o sette carte, all’"alto e basso" fino al "Texas Hold’Em" praticato al mondiale, che oggi spopolano e che i legionari dell’Impero hanno portato in ogni continente, dopo la Guerra. Mark Twain, che lamentava “l’ignoranza delle regole basilari del poker nelle classi colte”, si sarebbe molto rincuorato se avesse potuto campare un altro secolo (morì nel 1910). Avrebbe visto l’esplosione che questo ignobile, diabolico e delizioso gioco ha conosciuto da quando, nel 1970, il gestore di uno scalcagnato casinò nel centro di Las Vegas, il "Ferro di Cavallo", accettò recalcitrante di organizzare il primo mondiale di poker. Benny Binion il gestore era un purista. Lo riservò ai professionisti, agli amici e ai "rounders", ai nomadi del mazzo che facevano appunto il "round", il giro del West per spennare galline, sempre un passo avanti alle legge che li inseguiva. Il primo campione fu Johnny Moss, un maestro. Intascò 31mila dollari. Una tv locale trasmise la finale, e fu un fiasco. La marmorea impassibilità dei vecchi pro, allenati a nascondere ogni "tell", ogni tic fisico o verbale che tradisse le loro carte, rendevano quelle partite eccitanti come guardare la vernice seccarsi. La rivoluzione per i vecchi che un Sergio Leone avrebbe adorato - Johnny "il Maestro" Moss; Jimmy "il Greco"; Amarillo "lo Smilzo"; Doyle Brunson "il Dinosauro" che ancora gioca a 86 anni, dopo avere sconfitto due infarti, un ictus e due tumori; il cinese Johnny "the Dragon" Chan; Stu Ungar, il genio matematico che vinse tre milioni di dollari e morì di overdose senza una lira nel motel Oasis di Vegas in compagnia di una bottiglia vuota - arrivò in un rossetto. Non un rossetto di donna, niente di così romantico al tavolo da poker, ma una "lipstick camera", una microtelecamera grande appunto come un tubicino di rossetto piazzata nei tavoli, sotto il bordo dei posti dei giocatori. Invisibile ma ad alta definizione, il rossetto elettronico permette al telepubblico di vedere le due carte coperte, le carte nel "buco", secondo il gergo, mentre sono spizzate dai giocatori. Qualunque idiota a casa, qualsiasi brocco da venerdì sera con patatine, sigarette e acidità di stomaco vede le carte coperte di tutti. E dunque, come lo spettatore di telequiz che legge la risposta in sovraimpressione, si sente più bravo di quei professionisti che li lascerebbero con una mano davanti e una didietro in pochi minuti. Non c’è serata televisiva, nella galassia dei cinquecento canali vomitati dal cavo e dai satelliti, che non offra almeno qualche eliminatoria o finale o torneo di poker americano o internazionale, per puntare sulla "pokermania" esplosa, come sempre esplodono i giochi di chance nei momenti di crisi sociale collettiva, quando la vita quotidiana è dura e la paura è grande. A differenza di ogni altra competizione umana, dove il dilettante non vincerebbe un round di box o un game di tennis contro qualsiasi professionista, il poker regala una piccola, ma autentica probabilità anche al pollo. Un esordiente dilettante vinse il mondiale del 2004, infilando tutti i vecchi marpioni. Personaggi rassegnati a consumare la propria vita nella penombra verdognola di partite con qualche ricco fesso da stirare, stanno diventando idoli da album di figurine nel circuito della Wsp, la World Series of Poker, che per loro e ciò che la Fifa è per il calcio o il Tour de France per i ciclisti. La grande candeggina della tv ha lavato via quel lezzo di scantinato, di bari, di cicche, di illegalità e di sudore, che impregnava il poker dei "rounders", come fu raccontato nel bel film di John Dahl del 1998, con Matt Damon nel ruolo dello squalo bianco. La tv ha reso asettico e garbato, come una torneo di bingo in parrocchia o una gara di curling fra pensionati svizzeri, questo gioco rovinoso, assassino e infernale. La fabbrica dei miti si è messa a al lavoro. Gli occhiali da sole a foggia di occhi da rettile preistorico indossati da Greg "il Fossile" Raymer, insieme con i cinque milioni di dollari vinti nella finale mondiale del 2004, ne hanno fatto un cocco dei bambini. La semplice coincidenza del cognome è sembrata una stella cometa quando il mondiale è stato vinto da Chris Moneymaker, il signor "Faisoldi". Commovente e molto "american dream" la storia di Minh Ly, saldatore di Saigon fuggito davanti ai cattivoni comunisti nel 1975 su un peschereccio, "boat people" che ha fatto una barca di dollari. Molto politically correct è il successo di Annie Duke, casalinga e madre di tre bambini a casa che bastona maschietti al tavolo del poker. Le migliaia di casalinghe sfiancate che devono fare la spesa cercando saldi e offerte per i pannolini sospirano vedendo una di loro che butta con nonchalance mezzo milione di dollari su un bluff come loro buttando la biancheria sporca nella lavatrice. E non poteva mancare un Gesù, un teo-poker, in questo tempo di revival evangelico. Chris Ferguson detto "Jesus", per il volto e l’acconciatura da Nazareno sotto il cappello da cowboy, che deve sopportare a ogni torneo l’immancabile battuta: “Maestro, niente miracoli che qui giochiamo di soldi”. Pregando intensamente vinse un milione e mezzo nella finale del 2000. Si lamentino pure, i vecchi, che questo non è più poker, che questo è show business, che questa è roba da masturbatori da Internet e da voyeurs col telecomando. Il figlio del vecchio Binion piange di nostalgia quando ricorda la finale del '71 fra Moss, "il Maestro", e Jimmy Dandalos "il Greco". Duellarono per trenta giorni e trenta notti, fino a quando Jimmy The Greek, pescato da Moss in un bluff colossale, si alzò e disse semplicemente: “Mister Moss, temo di doverla lasciare andare”. Ma nessuno vinse mai sette milioni di dollari, nel bel tempo andato, come la sera della finale 2005, quando finalmente la "carta del fiume" volò sul tavolo. Hachem si era già alzato per congratulare il vincitore sicuro, Steve Danneman, quando sentì la moglie urlare. Lanciò un’occhiata alla quinta carta. Era un Cinque. Scala. Aveva fatto scala: Tre-Quattro-Cinque-Sei-Sette, sette, come i milioni che aveva vinto. Steve gli strinse la mano: “Good play, man”, buona giocata, come avessero appena finito un torneo di briscola per la bottiglia di Amaro 18 Isolabella. I telecronisti della Espn - la rete di tuttosport posseduta dalla Disney, quella di Minni, Pippo e i tre coniglietti, che ha lanciato la mania - gli chiesero e ora Hachem? “Ora mi iscrivo al torneo mondiale prossimo. Ci vediamo a settembre, in Mississipi, allo Harrah’s di Biloxi per la prima eliminatoria”. Ma era un bluff. Biloxi e il suo casinò non ci sono più, dopo il passaggio di Katrina. Anche Dio gioca a poker.



hits